Domenica
15 Giugno a Belluno si terrà una manifestazione in ricordo
dell'Operazione Baldenich.
L'Operazione Baldenich nota anche come Beffa di Baldenich, è il blitz
portato a termine con successo da 12 partigiani
nel giugno del ’44. Travestiti da soldati tedeschi entrano nel
carcere e liberano 70 prigionieri politici senza sparare un colpo. I
dettagli dell’operazione sono stati raccontati da uno dei
protagonisti, “Carlo” il Comandante della Piazza di Belluno
durante la guerra di liberazione. Ovvero il nostro concittadino
Mariano Mandolesi nato a Gaeta il 9 settembre del 1920 ed insignito
della cittadinanza onoraria dal Comune di Belluno con cerimonia del
12 aprile 1976. Il 28 Aprile 1945 Mandolesi ripeterà con successo il
blitz, beffando per la seconda volta i tedeschi.
Ma
dall'amministrazione gaetana nessun riconoscimento per il comandante
"Carlo", nemmeno in occasione del 70° anniversario della
Liberazione di Gaeta dal nazifascismo quando ha preferito festeggiare
il "giorno della libertà", una rievocazione storica
dell'ingresso delle truppe alleate a Gaeta il 19 Maggio del 1944, non
sprecando nemmeno una parola in ricordo delle gesta del nostro
concittadino che contribuì insieme a tutti i partigiani alla lotta
di Liberazione, occupando su più fronti l'esercito italo-tedesco,
facilitando così lo sbarco degli alleati nel Sud della penisola. Il
revisionismo storico di questa amministrazione ha raggiunto il
culmine con la parata dei marines della base USA ( scotto che il
nostro paese e in particolare Gaeta sta scontando da oltre 70 anni
come sanzione di guerra mascherata da piano di aiuti umanitari ), che
nulla hanno a che vedere con le truppe alleate del secondo conflitto
mondiale. Infatti i soldati americani imbarcati sulla Mount Withney,
nave ammiraglia della VI flotta, vera e propria cabina di regia in
grado di teleguidare gli interventi combinati di forze aeree,
missili, e della potente artiglieria delle altre navi in zona, hanno
contribuito alla distruzione della Libia appoggiando l'ascesa del
fondamentalismo nero di Al Quaeda, e oggi difendono il ritorno del
nazismo in Europa nelle acque del Mar Nero, violando i trattati
internazionali e contribuendo indirettamente alle stragi, di cui ci
giunge soltanto un eco distorta, perpetuate tuttora in Ucraina.
Il Circolo del Partito della Rifondazione Comunista vuole così ricordare le gesta dell'eroe a cui è dedicata la sezione locale riportando la cronaca del blitz tratta dalle sue memorie.
Dalle "Memorie di Mariano Mandolesi"
La mattina del 12 giugno 1944, venne su alla casera dei "Ronch" una staffetta, mandata per me da De Luca che mi attendeva a Bolzano bellunese.
Scesi immediatamente ad incontrarlo. Mi disse che il Comando della Brigata "Pisacane" aveva pensato di dare a noi della divisione Nino Nennetti di andare nel carcere di Belluno "Baldenich" a liberare i compagni detenuti, compagni che quotidianamente subivano torture di ogni genere. Nel frattempo, lo stesso De Luca aveva fissato un appuntamento con un informatore che ci poteva dare importanti informazioni sulla struttura del carcere e sulla sua organizzazione interna.
Subito dopo il colloquio, ritornai alla casera dei "Ronch". Giunto al primo posto di blocco mi avvisarono di tornare nuovamente a Bolzano bellunese, dove mi attendevano due del comando militare provinciale: Gino Bortolon ed Aldo Praloran. Di fretta e furia ripercorsi lo stesso tragitto già fatto di prima mattina. Incontrai i due del comando militare: mi dissero che, in base ad alcune loro informazioni, Milo (Francesco Pesce) comandante del comando militare provinciale di Belluno, doveva essere trasferito entro breve a Trento per essere fucilato. La loro idea era quella di tentare di liberarlo lungo il tragitto da Belluno a Trento, creando dei posti di blocco lungo le strade e agendo nel momento in cui fosse passata la macchina con a bordo Milo.
Risposi prospettando loro che, arrivati a quel punto, era forse meglio agire direttamente nel carcere, ma loro mi dissero che era troppo pericoloso. La loro paura e quella di tutto il CLN provinciale era quella di possibili rappresaglie contro la popolazione.
Ricordai loro il fatto che oltre ad esserci Milo, in carcere c'erano tanti altri compagni partigiani (Eliseo Dal Pont, Doriguzzie e Banchieri tra gli altri) che ogni giorno rischiavano una morte atroce.
Alla fine del colloquio dissi loro che avrei piazzato alcuni uomini lungo le strade e raccomandai di avvertirmi quando il trasporto di Milo era imminente. In cambio di questa operazione, chiesi loro 200 coperte e del pane biscotto per venerdi mattina nel rifugio di Pian Cajada.
Ci salutammo e nuovamente mi avviai alla casera dei "Ronch".
Durante il tragitto abbozzai una sorta di piano, il quale doveva risultare perfetto, visto che in gioco c'era la mia vita e quella degli altri compagni.
Il giorno seguente, martedì 13 giugno, scesi a Bolzano bellunese dove avevo appuntamento con De Luca per incontrare l'informatore. In bicicletta ci avviammo verso Feltre.
Dovevamo raggiungere una trattoria, nei cui paraggi dovevamo incontrare questa persona a noi sconosciuta. Come segno di riconoscimento costui doveva portare una margherita all'occhiello.
Mentre si andava verso la trattoria sulla strada ci sorpassò un giovane sportivo su una bella bicicletta. Dopo che ci aveva superato di 50 metri, si fermò a raccogliere una margherita. Io e De Luca intuimmo che era l'informatore.
Prima di entrare nell'osteria feci un giro di perlustrazione, il ragazzo era lì ad aspettarci. Dopo aver ordinato da bere uscimmo dall'osteria e ci avviammo oltre la ferrovia dove ci sedemmo.
L'informatore, che era il secondino del carcere, cominciò a descriverci la situazione, le persecuzioni che subivano i prigionieri, le torture quotidiane.
Feci subito domande ben precise e utilizzando come pezzo di carta da appunti, un pacchetto di "serraglio” tirate fuori da De Luca che ne offrì una a testa, feci lo schizzo del carcere, guidato dalle informazioni del nostro collaboratore: segnai cancelli, muri di cinta, il cancello posteriore.
Il carcere "Baldenich" era per quei tempi un carcere moderno, creato con tutti gli accorgimenti, con la rotonda centrale ed i bracci.
Bisognava passare un portone, aprirsi un cancello, poi un secondo quindi un terzo ed infine raggiungere la rotonda che portava ai bracci al piano terra si trovava l'ufficio matricola e le celle d'isolamenti. Domandai anche gli orari dei turni e l'organizzazione interna.
Non demmo la possibilità al secondino di farci domande. Lo salutammo e tornammo nei nostri nascondigli.
Subito dopo il mio arrivo giunse una staffetta avvisandomi che il comandante della "Calvi", il compagno Garbin, voleva parlarmi e mi attendeva giù a Bolzano bellunese. Di santa pazienza scesi nuovamente. Dalla forcella Tanzon, alla casera Bortot, a Bolzano: almeno 2 ore di corsa. Parlai per la prima volta con Garbin.
Discutemmo dei rapporti tra le nostre due formazioni e stabilimmo tra l'altro la linea di demarcazione tra la "Calvi" e la "Pisacane".
Una volta sceso ne approfittai per incontrare Beppi foglio di Sovilla. Con una cartina topografica a portata di mano , decidemmo il punto da raggiungere la sera del 15 giugno, giorno dell'assalto al carcere. Proprio Beppi rilevò il punto, cioè una fattoria abitata nei pressi di Cavarzano denominata casera del "Medone", che distava 500 metri in linea d'aria dal carcere.
Stanchissimo risalii al nascondiglio ai "Ronch" dove vi trovai Clocchianti venuto per una visita d'ispezione.
La sera, quando c'andammo a sdraiare sul fienile adibito a dormitorio, gli accennai dell' incarico ricevuto da De Luca e gli spiegai per sommi capi come intendevo portare a termine l'operazione.
La mattina dopo riunii gli uomini e ne scelsi 25. Mentre sceglievo, Nicolotto (Rizzieri Raveane da Feltre) capì le mie intenzioni e sotto voce mi disse che assolutamente doveva entrare anche lui nel carcere, per liberare il suo amico Banchieri.
Nel frattempo feci partire Masi ed un altro: dovevano requisire dei camion con i serbatoi pieni e collocarli in una stradina che indicai loro sulla carta, nei pressi di Cavarzano o, vicino al carcere.
Incaricai Lino Piazza d'andare con la fidanzata a passeggiare, ad una certa ora, avanti e indietro l'imbocco della stradina che porta al carcere. Doveva osservare tutti i movimenti che c'erano.
Per l'azione dunque mi servivano 25 persone e le scelsi alla presenza di Clocchiatti. Tra questi uomini, 12 dovevano entrare nel carcere ed il resto doveva rimanere fuori di copertura. Quelli che dovevano entrare si dividevano nei quattro partigiani arrestati ed in otto guardie tedesche.
Ammucchiammo tutte le prede vestiarie e d'equipaggiamento naziste che avevamo: ricontammo giacche, pantaloni, scarpe ecc...
Nell'aria c'era molta tensione; i compagni capivano che ci stavamo preparando per qualcosa d'importante, ma non riuscivano a capire di cosa si trattasse.
Dopo un breve discorso fatto da Clocchiatti ed un altro, di cui non rammento le parole, fatto da me, partimmo intonando la "guardia rossa".
Ci portammo alla destra del torrente Ardo per raggiungere la casa di Sovilla e, insieme a Beppi risalimmo il fiume sulla sinistra per andare alla casera del "Medone".
De Luca si fece trovare lì con i viveri necessari per tutti. Ci accampammo nel fienile. I contadini che abitavano la fattoria erano persone tranquille. Solo quando la mattina seguente colui che era di guardia alla finestra scorse il carcere tutti capirono di che si trattava.
Feci vestire Miscia, Tim, Aliosca, Mick, Kassilli, Timoffei, Orlov e il biondo da tedeschi. Questi, dopo pochi minuti, sembravano una perfetta pattuglia nazista dalle divise impeccabili.
Io e De Luca li esaminammo in ogni minimo particolare. Con me tra i prigionieri scelsi Nicolotto, Marat, Ermes.
Attendemmo nella casera fino all'imbrunire e quindi partimmo. Scendemmo per Cavarzano. Attraversammo il paese: i tedeschi in testa e in coda e i prigionieri al centro. Le persone che ci vedevano passare ci guardavano con dispiacere e commiserazione.
Quando arrivammo all'incrocio prima del carcere attendemmo qualche minuto, ma di Lino Piazza nessuna traccia questo era il primo intoppo. Lino doveva riferirci quanto era accaduto in quelle ultime ore se era stata raddoppiata la guardia, insomma su tutto quanto servisse a dare l'idea esatta dl quello che stavamo per affrontare.
Nonostante l'imprevisto, attraversammo l'incrocio ed imboccammo la stradina che porta al piazzale del carcere. Eravamo già stati avvistati dalle sentinelle, le quali avvertirono le guardie del nostro arrivo.
Il drappello in perfetta formazione militare si fermò davanti al portone dove Miscia con decisione bussò nello spioncino dal quale uscì un volto di un carabiniere.
Miscia, in cattivo italiano ordinò d'aprire il portone, ma il maresciallo a sua volta gli chiese i documenti di carcerazione. Miscia non avendoli si giustificò dicendo che i suoi uomini erano stanchi dal rastrellamento.
Si chiuse lo spioncino e si aprì il portone. Una volta entrati, Timoffei , Kassilli e Tim rimasero nel cortile insieme ad altri carabinieri, mentre noi c'avviammo verso l'ufficio matricola.
Entrammo e subito prendemmo posizione io e Nicolotto vicino al telefono e la finestra per mandare un eventuale segnale a coloro che erano nel cortile.
Prima di noi però erano entrati altri prigionieri catturati durante il rastrellamento nel Cadore. Lino Piazza si era nascosto per questo motivo per non destare alcun sospetto nelle guardie.
Il capo delle guardie carcerarie cominciò con il chiedere a Miscia i documenti cercando in tutti i modi di farsi comprendere.
In verità noi cercavamo di prendere tempo perché aspettavamo che il secondino rientrasse dal giro con le chiavi delle celle.
Miscia era molto nervoso ma questo lo capivamo solo noi, per il capo delle guardie erano segni di un carattere autoritario. Nel momento in cui il capo domandò a tutti se qualcuno parlasse italiano entrò il secondino con le chiavi.
Biondino gli si mise a fianco, lo afferrò per le spalle, nello stesso momento, impugnando una pistola che avevo tenuto nascosto dietro la schiena e puntandola verso il capo dissi che tutti parlavamo italiano.
Nel frattempo Nicolotto aveva staccato i fili del telefono.
Io scostai le tendine per il segnale convenuto ai compagni che aspettavano fuori. Tim, Vassilli e Timoffei avevano spogliato e legato le sentinelle.
Nella rotonda c'era anche il secondino nostro informatore che quando ci vide era così entusiasta che gli brillavano gli occhi.
In possesso delle chiavi incominciammo a fare il giro delle celle dei politici. In un primo momento non ci avevano riconosciuti, ma appena capirono che eravamo partigiani giunti fin li per liberarli fu un gridare dappertutto, un affannarsi nel trovare vestiti e scarpe per uscire da quell'inferno. Il capo delle guardie appena sentì nominare Milo ci condusse subito da lui.
Milo in un primo istante non mi riconobbe, ma quando cominciò a capire cosa succedeva, prese a vestirsi: tanta era l'emozione che dovetti aiutarlo ad infilare i pantaloni.
Liberavamo partigiani e incarceravamo carabinieri, secondini e guardie.
Solo un uomo non ci seguì, costui era l'ingegnere Zasso detenuto con la moglie la quale si unì ai liberati. Radunammo tutti nel cortile prendendo tutto ciò che poteva tornarci utile.
Un attimo di panico ci prese davanti al portone principale chiuso. In quella confusione reclamai le chiavi. Quel portone sbarrato dava la sensazione di fallimento. Allora con un gesto deciso presi con entrambi le mani i ferri che chiudevano la parte fissa del portino, diedi uno strattone e con una spallata lo spalancai.
Si accodò a noi un detenuto comune ma non appena me ne accorsi lo allontanai dal gruppo.
Beppi era fuori dal carcere, per portarci fuori dalla città verso le montagne. Durante il tragitto non trovammo nè Masi, nè i camion, quindi dovemmo scappare a piedi.
Le guardie carcerarie dettero l'allarme venti minuti dopo la fuga. Noi con Beppi eravamo già lungo le pendici del monte Serva. Lungo il cammino sistemammo nei nascondigli già stabiliti venti dei prigionieri più stanchi, mentre il resto ci seguì fino su ai "Ronch".