Mariano Mandolesi nasce a Gaeta nel 1920, è figlio di
Costanzo operaio delle Vetrerie Federate di Gaeta, che come molte degli
operai delle vetrerie si poneva a metà tra l’anarchismo e il socialismo.
Il piccolo Mariano è presto avviato al lavoro nelle vetrerie, dove di
notte inizia come tira catene, nel 1933 è portacatene e l’anno
successivo è battimazza nelle forge della stessa Vetreria. Sono anni
duri: di notte a lavoro e di giorno continua la scuola, il marittimo di
Gaeta dove nel ’37 prese l’abilitazione navale di I classe. Mariano a
quindici anni va nelle Marche, è già un’antifascista convinto, con due
amici fonda una cellula antifascista e immagina di fare un attentato a
Mussolini. Il progetto prende forma, pensa ad una bomba da mettere sotto
una strada a Gaeta dove spesso il duce passa in rivista, vuole farla
esplodere dal mare, prepara un detonatore con il filamento di una
lampadina, ma i suoi propositi sono fermati dal farmacista. Eh si perché
per fabbricare l’ordigno l’unico esplosivo possibile è il clorato di
potassio che compra mezza libra alla volta fino ad accumularne dieci
chili, poi il farmacista pensando che volesse farci i botti per
capodanno gli spiega che il clorato serve per gli sciacqui e rifiuta di
venderne ancora. Nel ’38 si trasferisce a Civitanova Marche dove lavora
in fabbrica, alle Officine fratelli Cecchetti ed è lì che il nostro
diventa comunista, come egli stesso racconta: quando uno di questi
emissari che stavano dentro alle fabbriche, sapendomi antifascista mi
disse: “Di un po’; ma tu sei comunista o socialista?” E io gli ho detto:
“Guarda, io non ne capisco niente; tu mi devi spiegare cos’e’ il
socialista e cos’e’ il comunista?” E lui mi ha detto: “Socialisti sono
quelli che vogliono formare prima la coscienza alla gente e poi prendere
il potere. I comunisti invece vogliono prendere il potere per poter
formare la coscienza alla gente”. E io gli ho detto: “Allora sono
comunista. Prendiamo il potere e poi facciamo la coscienza alla gente.
Nel 1940 Armando lascia la fabbrica perché arriva la chiamata
dell’esercito, nel ’41 è a Padova dove prende contatto con i compagni
del partito. La sua attività di antifascista non passa inosservata è
Padova è viene mandato “in esilio” a Montagnana in una piccola base.
Conosce anche li dei compagni e torna in contatto con il partito. Arriva
l’8 settembre e Mandolesi lascia la caserma e si unisce ad altri
partigiani sulle montagne, si tratta della brigata Pisacane. La mattina
del 12 giugno ’44 riceve l’ordine di andare a liberare dei compagni
detenuti dai tedeschi nel carcere Baldenich a Belluno: raduna un gruppo
di 25 persone, dodici si travestono da nazisti, altri si fingono
prigionieri altri sono fuori di copertura. Entrano in perfetta
formazione nazista nel carcere, i carabinieri di guardia li accolgono
senza pensare che da lì a poco li faranno prigionieri, tagliano i fili
del telefono e liberano i compagni incarcerati, con l’aiuto di un
secondino che è loro complice. All’uscita trovano il portone chiuso ma
Mandolesi lo apre a calci e spallate, sono fuori e con loro tutti i
compagni in carcere. Mandolesi dopo la liberazione fu per un breve
periodo questore di Belluno e sarà decorato con la medaglia d’argento
per le sue azioni diventando una delle figure più popolari della
resistenza in Veneto. Concludo con il giudizio che il compagno Carlo dà
della resistenza in una intervista al manifesto: “A chi oggi pone la
domanda se la resistenza sia stata giusta, vorrei chiedere: ma è forse
giusta la guerra?
Noi abbiamo lottato per un ideale, per affermare i valori di
indipendenza, di democrazia e di libertà, per riscattarci da una
condizione politico-culturale, che ci aveva impedito di pensare
liberamente e autonomamente; abbiamo lottato per riacquistare la nostra
dignità di popolo e per riaffermare il principio di autodeterminazione
dei popoli.
Tutto questo ci è costato sacrifici, feriti e morti, ma ci sosteneva una
forte fede: dovevamo dar vita a uno stato democratico, senza aspettarci
onori, cariche, successo o denaro. E molti di noi, dopo la guerra,
tornarono al loro lavoro, proprio nelle stesse condizioni di prima.”
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