"Il Comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo Comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente". Karl Marx

lunedì 13 febbraio 2012

Mariano Mandolesi detto “Carlo”

Mariano Mandolesi nasce a Gaeta nel 1920, è figlio di Costanzo operaio delle Vetrerie Federate di Gaeta, che come molte degli operai delle vetrerie si poneva a metà tra l’anarchismo e il socialismo. Il piccolo Mariano è presto avviato al lavoro nelle vetrerie, dove di notte inizia come tira catene, nel 1933 è portacatene e l’anno successivo è battimazza nelle forge della stessa Vetreria. Sono anni duri: di notte a lavoro e di giorno continua la scuola, il marittimo di Gaeta dove nel ’37 prese l’abilitazione navale di I classe. Mariano a quindici anni va nelle Marche, è già un’antifascista convinto, con due amici fonda una cellula antifascista e immagina di fare un attentato a Mussolini. Il progetto prende forma, pensa ad una bomba da mettere sotto una strada a Gaeta dove spesso il duce passa in rivista, vuole farla esplodere dal mare, prepara un detonatore con il filamento di una lampadina, ma i suoi propositi sono fermati dal farmacista. Eh si perché per fabbricare l’ordigno l’unico esplosivo possibile è il clorato di potassio che compra mezza libra alla volta fino ad accumularne dieci chili, poi il farmacista pensando che volesse farci i botti per capodanno gli spiega che il clorato serve per gli sciacqui e rifiuta di venderne ancora. Nel ’38 si trasferisce a Civitanova Marche dove lavora in fabbrica, alle Officine fratelli Cecchetti ed è lì che il nostro diventa comunista, come egli stesso racconta: quando uno di questi emissari che stavano dentro alle fabbriche, sapendomi antifascista mi disse: “Di un po’; ma tu sei comunista o socialista?” E io gli ho detto: “Guarda, io non ne capisco niente; tu mi devi spiegare cos’e’ il socialista e cos’e’ il comunista?” E lui mi ha detto: “Socialisti sono quelli che vogliono formare prima la coscienza alla gente e poi prendere il potere. I comunisti invece vogliono prendere il potere per poter formare la coscienza alla gente”. E io gli ho detto: “Allora sono comunista. Prendiamo il potere e poi facciamo la coscienza alla gente. Nel 1940 Armando lascia la fabbrica perché arriva la chiamata dell’esercito, nel ’41 è a Padova dove prende contatto con i compagni del partito. La sua attività di antifascista non passa inosservata è Padova è viene mandato “in esilio” a Montagnana in una piccola base. Conosce anche li dei compagni e torna in contatto con il partito. Arriva l’8 settembre e Mandolesi lascia la caserma e si unisce ad altri partigiani sulle montagne, si tratta della brigata Pisacane. La mattina del 12 giugno ’44 riceve l’ordine di andare a liberare dei compagni detenuti dai tedeschi nel carcere Baldenich a Belluno: raduna un gruppo di 25 persone, dodici si travestono da nazisti, altri si fingono prigionieri altri sono fuori di copertura. Entrano in perfetta formazione nazista nel carcere, i carabinieri di guardia li accolgono senza pensare che da lì a poco li faranno prigionieri, tagliano i fili del telefono e liberano i compagni incarcerati, con l’aiuto di un secondino che è loro complice. All’uscita trovano il portone chiuso ma Mandolesi lo apre a calci e spallate, sono fuori e con loro tutti i compagni in carcere. Mandolesi dopo la liberazione fu per un breve periodo questore di Belluno e sarà decorato con la medaglia d’argento per le sue azioni diventando una delle figure più popolari della resistenza in Veneto. Concludo con il giudizio che il compagno Carlo dà della resistenza in una intervista al manifesto: “A chi oggi pone la domanda se la resistenza sia stata giusta, vorrei chiedere: ma è forse giusta la guerra?
Noi abbiamo lottato per un ideale, per affermare i valori di indipendenza, di democrazia e di libertà, per riscattarci da una condizione politico-culturale, che ci aveva impedito di pensare liberamente e autonomamente; abbiamo lottato per riacquistare la nostra dignità di popolo e per riaffermare il principio di autodeterminazione dei popoli.
Tutto questo ci è costato sacrifici, feriti e morti, ma ci sosteneva una forte fede: dovevamo dar vita a uno stato democratico, senza aspettarci onori, cariche, successo o denaro. E molti di noi, dopo la guerra, tornarono al loro lavoro, proprio nelle stesse condizioni di prima.”

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